Oggi ti propongo un interessante articolo tratto da Ilsole24ore

L’empatia è fondamentale nell’ascolto attivo, ed è legata al saper percepire non solo quello che viene detto.

[…] Il tacere è un presupposto irrinunciabile tra le regole dell’ascolto. Bisogna differenziare il banale «stare zitti» dal più complesso «fare silenzio». […]

Parto dalle parole: silenzio, dal latino silentium, che deriva a sua volta dal verbo silere, sinonimo proprio di tacere, non fare rumore. L’uso che ne facciamo è associato più spesso all’idea di toglier che di aggiungere (togliere la parola, o il rumore). Curioso poi se osserviamo a che verbi lo associamo. Spesso usiamo un intransitivo, cioè “stare” (in silenzio) quindi un verbo che indica uno stato o un modo di essere. La situazione già cambia se decidiamo di usare “fare” (silenzio), che in qualità di verbo intransitivo ci indica un’azione che appunto “transita”, cioè si estende dal soggetto all’oggetto diretto, sottintendendo quindi una pulsione generativa.

Proviamo ad approfondire entrambi gli aspetti. Partiamo dal togliere: in una relazione di ascolto, la parola e il “rumore” da ridurre riguarda proprio noi stessi, non solo fisicamente, ma “interiormente”. Dobbiamo riuscire a rimanere nell’ascolto con le nostre intelligenze, tirandoci però contemporaneamente fuori per tutto il resto.

È ancora una volta il linguaggio che ci mette in guardia su quanto sia difficile riuscire a farlo. Pensate ad esempio ad una delle espressioni più popolarmente diffuse rispetto al significato della parola empatia. L’empatia è fondamentale nell’ascolto attivo, ed è legata al saper ascoltare non solo quello che viene detto. Ebbene spesso la sento definire come il “sapersi mettere nei panni di qualcuno”.

L’espressione metaforica invita a saperci vedere nel suo contesto; letteralmente però non ci invita a modificarci: ci mettiamo nei suoi panni, ma se rimaniamo noi stessi, staremo ascoltando noi e quello che noi faremmo in quella situazione, E dove è l’ascolto dell’altro?

Analogamente possiamo pensare all’espressione che spesso utilizziamo nelle relazioni di ascolto quando cerchiamo di renderci utili e provare a suggerire delle soluzioni: “se io fossi in te”. In inglese, francese e spagnolo la stessa frase suona “se io fossi te”. In italiano invece l’utilizzo tradisce l’immedesimarsi non nell’altro (con le sue paure, emozioni, stati d’animo) ma “solo” nella sua situazione: se io fossi in te, quindi con le mie di emozioni, esperienze, competenze, paure eccetera.

E allora come fare silenzio? Anche perché in fondo una delle qualità del silenzio che più spesso consideriamo è che proprio la possibilità che ci dà di ascoltarci, di meditare e di entrare in contatto profondo con noi stessi. Al punto che, se spinta all’estremo, ci porta a cerca di limitarlo, dato che lo associamo senz’altro alla tranquillità e alla ricerca interiore, ma anche alla solitudine.

Il “troppo” silenzio poi ci può persino mettere fisicamente in difficoltà. Qualche anno fa fece notizia un laboratorio statunitense, gli Orfield Labs di Minneapolis, con la sua camera anecoica (che annulla qualunque rumore ed eco) talmente silenziosa da essere, oltre che un laboratorio di ricerca, anche meta di visita e un posto da Guinness dei Primati, perché l’innaturale silenzio è talmente denso da permettere di percepire tutti i suoni prodotti dal corpo (battiti, respiro eccetera) al punto da procurare malori, tanto che la permanenza è contingentata e consentita solo in presenza di una guida.

Ecco quindi perché conoscersi è importante nell’ascolto, per capire quale dei rumori che percepiamo sono nostri. E l’aspetto generativo del fare silenzio allora? Nella relazione, se mi “silenzio” io, faccio spazio per accogliere l’altro con le sue esperienze, emozioni, paura, persino bias (che oltretutto lui probabilmente non riconosce come tali, mentre noi con le nostre intelligenze attive potremmo identificare). Perché se io fossi te quelle sentirei e proverei, e allora sì che starei davvero ascoltandoti.

È improprio e persino non desiderabile pensare di ascoltare creando il vuoto, perché il vero ascolto lo otteniamo nella sintesi tra noi e l’altro. Per questo dobbiamo lasciargli dello “spazio”. Secondo Francesca Rigotti, nel suo “Metafore del silenzio”, le metafore di cui sono intrise le filosofie occidentali raccontano un primato del tempo rispetto allo spazio (è il tempo che scorre ed è fluido, è il tempo che è denaro). Allora teniamo a mente “l’accostamento definitivo, quello tra silenzio e spazio e tra parola e tempo”.