MEGLIO UN SILENZIO PENSATO, CHE PAROLE SENZA PENSIERO
“Quasi sempre, noi non incontriamo gli altri, ma le opinioni che abbiamo su di loro; Non incontriamo le loro visioni ma la nostra reazione alle loro visioni, non usciamo quasi mai dallo schema della ragione e del torto. Perdere questa fissità trasforma ogni secondo della vita”
Così osserva la scrittrice Chandra Livia Candiani nel suo ultimo libro “Il silenzio è cosa viva”
Studi recenti stanno dimostrando che prendersi del tempo per dedicarsi al silenzio ripristina il sistema nervoso, aiuta a sostenere l’energia e condiziona le nostre menti a essere più adattive e reattive agli ambienti complessi in cui viviamo, lavoriamo e operiamo. Imke Kirste della Duke Medical School ha poi recentemente scoperto che il silenzio è associato allo sviluppo di nuove cellule nell’ippocampo, la regione cerebrale chiave legata all’apprendimento e alla memoria.
Questo spiega anche perché non sono rari i casi di scrittori o creativi amanti del silenzio. A partire da J.K. Rowling, l’autrice della saga dal successo planetario di Harry Potter. Ma anche il celebre psichiatra e psicanalista Carl Jung o artisti come Pablo Picasso apprezzavano il silenzio della propria solitudine. Proprio del pittore spagnolo è la frase “Senza una grande solitudine nessun serio lavoro è possibile”. Lavorare, pensare e creare da soli spesso rende più facile la concentrazione e la produttività. La creatività è spesso un processo solitario e silenzioso.
Plasmare buone idee e fare un lavoro qualitativamente alto necessita dunque di qualcosa che oggigiorno è sempre più raro: il silenzio.
Il problema principale che frena l’assorbimento generale di questa consapevolezza è che, per la società contemporanea, spesso la solitudine e il silenzio sono associati a sensazioni negative: tristezza, noia, mancanza di relazioni sentimentali e amicizie. In realtà è importante distinguere tra l’essere da soli e il sentirsi soli, tra il voler rimanere in silenzio e l’essere costretti a farlo per mancanza di alternativa. Bisogna considerare la cosa da entrambi i lati della medaglia: è vero che può essere un peso, un disagio, ma può essere anche un grande valore, da riscoprire e approfondire.
Il silenzio è utile tanto quanto la socialità per riuscire a costruire la propria personalità, per stare bene con se stessi e vivere una vita piena, stimolante e soddisfacente. Serve per chiarirsi le idee, focalizzarsi su nuovi obiettivi e meditare su quelli passati, rielaborare le esperienze e assumerne maggiore consapevolezza.
Questo non significa sminuire l’importanza di lavorare in gruppo e scambiarsi idee, opinioni, soluzioni e critiche costruttive. Semplicemente, bisogna essere in grado di coniugare le due realtà sia nel campo lavorativo che in quello personale, e capire quando è il momento di preferire la compagnia degli altri e quando quella di se stessi. Se è vero che, come spiega la giornalista Susan Cain sul New York Times, ormai va di moda l’idea che risultati eccellenti si possano ottenere solo operando in modo aggregativo, è altrettanto vero che si è scoperto come le persone più creative (non solo in senso artistico ma anche tecnologico e scientifico) siano quelle abbastanza introverse da riuscire a passare tanto tempo sole con se stesse, in silenzio, a riflettere.
Al di là dell’uscire da un gruppo, stare in silenzio è complesso anche quando si è da soli. Siamo infatti continuamente circondati da distrazioni: il cellulare e il mondo che contiene, le notifiche di chat, applicazioni o servizi informativi, le bacheche dei social, la televisione. Certo, non sempre le distrazioni sono negative: lo psicologo americano Jonathan Smallwood ha individuato una profonda correlazione tra distrazione e creatività. Smallwood ha infatti spiegato che l’abilità e agilità nel pensiero creativo, quello che ci ha permesso di progredire e di generare in continuazione nuove soluzioni a nuovi problemi (concreti o astratti che siano), è legata profondamente alla capacità di deviare l’attenzione dalle informazioni esterne e concentrarci su pensieri ed emozioni autogenerati. Distrarsi, dunque, può essere positivo, ma serve farlo realmente, e da tutto, per ritrovare quel concetto di “distrazione” intesa come libero vagare della mente nei suoi angoli più reconditi e nelle sue più spontanee riflessioni.
Significa trovare il silenzio esteriore tanto quanto quello interiore: un’operazione complicata e per nulla scontata.
Stare in silenzio significa riuscire a frenare quei riflessi mentali che spesso ci costringono su alcuni binari di pensiero, solitamente legati al mantenere a ogni costo una certa reputazione o un certo punto di vista, uscire dalle briglie delle convenzioni che ci hanno e ci siamo dati e che ormai guidano in modo automatico il nostro pensare e agire. Mettere a riposo quello che è uno dei criteri base su cui si fonda la società: il riflettere prima di parlare, il pensare con cura a quello che si vuole dire. Il nostro costante concentrarci – anche involontario – su ciò che dobbiamo dire, scrivere o postare deve lasciare un po’ di spazio alla coltivazione di quel silenzio capace di far germogliare nuove idee e prospettive. Una tendenza che, per educazione ricevuta e acquisita, cerchiamo sempre di strozzare, concentrandoci su ciò che è socialmente e personalmente utile e consolidato.
Un buon suggerimento per riuscire a vincere la guerra contro noi stessi e ottenere il vero silenzio e reali momenti di quiete è, ad esempio, il riuscire a trovare il tempo di fare cinque minuti di pausa tra un compito e l’altro. Una sorta di “reset” mentale per far respirare il cervello e trovare nuove forze e concentrazione. Oppure concedersi qualche ora a settimana di immersione nella natura, spegnendo il cellulare e lasciando libera la mente, anche in momenti di tensione e stress lavorativo: spesso proprio quando non ci si concentra forsennatamente su un problema si riesce a elaborare naturalmente una soluzione. Non bisogna utilizzare questo tempo per ricordarsi delle cose che ci sono da fare e ripassare la nostra to-do list quotidiana, ma al massimo focalizzarsi su quei problemi o domande che solitamente sotterriamo, relegandoli come non prioritari.
Un’altra buona tecnica è quella di riuscire a trovare momenti (di almeno qualche ora o addirittura – meglio – lunghi una giornata intera) per disconnettersi completamente da social, mail e altri possibili aggregatori tecnologici: è importante riuscire a staccare dal lavoro, ma anche dal continuo bisogno di aggiornamento e divertimento. Infine, è fondamentale ritagliarsi uno spazio – anche brevissimo, di cinque o dieci minuti – per la meditazione vera e propria. Una sorta di detox mentale dai pensieri che ci assillano quotidianamente, dove lasciare il cervello libero di vagare verso ciò che preferisce e di “riposarsi”, senza obiettivi.
Anche se il mondo in cui viviamo sembra volerlo accantonare per sempre, dobbiamo continuare a dedicarci alla ricerca, alla cura e all’amore per il silenzio, capace di risvegliare la parte migliore di noi: quella creativa e inventiva. Una volta conquistata questa consapevolezza e questa capacità, sarà possibile toccare con mano tutti i benefici e le sensazioni che il silenzio è in grado di restituirci, e con gli interessi.
E allora come fare silenzio? Anche perché in fondo una delle qualità del silenzio che più spesso consideriamo è che proprio la possibilità che ci dà di ascoltarci, di meditare e di entrare in contatto profondo con noi stessi. Al punto che, se spinta all’estremo, ci porta a cerca di limitarlo, dato che lo associamo senz’altro alla tranquillità e alla ricerca interiore, ma anche alla solitudine.
Il “troppo” silenzio poi ci può persino mettere fisicamente in difficoltà. Qualche anno fa fece notizia un laboratorio statunitense, gli Orfield Labs di Minneapolis, con la sua camera anecoica (che annulla qualunque rumore ed eco) talmente silenziosa da essere, oltre che un laboratorio di ricerca, anche meta di visita e un posto da Guinness dei Primati, perché l’innaturale silenzio è talmente denso da permettere di percepire tutti i suoni prodotti dal corpo (battiti, respiro eccetera) al punto da procurare malori, tanto che la permanenza è contingentata e consentita solo in presenza di una guida.
Ecco quindi perché conoscersi è importante nell’ascolto, per capire quale dei rumori che percepiamo sono nostri. E l’aspetto generativo del fare silenzio allora? Nella relazione, se mi “silenzio” io, faccio spazio per accogliere l’altro con le sue esperienze, emozioni, paura, persino bias (che oltretutto lui probabilmente non riconosce come tali, mentre noi con le nostre intelligenze attive potremmo identificare).
Perché se io fossi te quelle emozioni la sentirei e proverei, e allora sì che starei davvero ascoltandoti.